Eravamo giovani e spensierati, forse. A Cecilia piaceva mordere la vita, giorno e notte.
Aveva più tempo libero rispetto a me e a Luca, che frequentavamo, con alterne fortune, l’università ; lei no, non che non avesse i numeri: era semplicemente pigra.
Luca non mi andava a genio; fondamentalmente ero geloso del suo rapporto privilegiato con Cecilia.
Il fatto è che dovevo pur essergli grato, perché senza di lui non l’avrei mai conosciuta.
Per questo mi maceravo, dentro.
Qualitativamente il mio rapporto con Cecilia era denso di soddisfazioni, perché era di tipo cerebrale, simbiotico e non grevemente materiale. Tutto questo, però, mi puzzava di “agliettoâ€â€¦
La domenica mattina, avevo venti anni, ero solito farle delle improvvisate; salivo sul tranvetto della Casilina e le portavo la colazione: un maritozzo con la panna. Ah, quanto le piaceva la panna!
Si affacciava all’uscio di casa come un ectoplasma; alle 9:30 del mattino era in coma, una sonnambula che vagava per la casa; i suoi, lavoratori indefessi, dormivano per recuperare le fatiche della settimana lavorativa. Ma lei che dormiva a fare? E poi anche i feriali …
Una di quelle domeniche avevo deciso di dare un taglio definitivo alla nostra storia. Ma quale storia? Avevamo discusso la sera prima. La trita questione che io sarei stato come tutti gli altri e la frequentavo solo per portarmela a letto …
Mi presentai come di consueto alle 9:30 del mattino, con due maritozzi con la panna.
Barcollante mi preparò il caffé con un prototipo di quei marchingegni elettrici, che sarebbero divenuti negli anni di uso comune. Buono. Si era svegliata, almeno un poco. Aveva programmato la sua mattinata con me: saremmo andati al mare e avrebbe concesso un po’ di riposo al suo corpo ed al suo Luca. E al suo ragazzo, ma non era una novità .
Sorseggiai il caffé. I maritozzi facevano bella mostra di sé sul tavolo della cucina, una Salvarani in fòrmica all’ultima moda. Con una scusa presi la porta di casa e mi allontanai; le dissi che non mi ritrovavo in tasca duemilalire (con cui avremmo svoltato la giornata) e che volevo cercarle facendo il cammino a ritroso dalla fermata del tranvetto, distante 150 metri. Sapevo che non sarei tornato sui miei passi.
La immaginavo mentre addentava il maritozzo, sbirciando sotto il vassoio un foglio piegato in quattro. La mia lettera di addio.
"Cecilia cara,
non passare con te questa giornata tanto agognata [dal latino agoniare = lottare e stare in ansia (stessa radice del vocabolo agonia)] mi procura una sofferenza indicibile;
non di meno è una scelta obbligata: le tue parole di ieri mi hanno ferito. Può darsi che tu abbia ragione, chissà … Credo -e credimi- che non ti sono amico perché voglio portarti a letto.
Non voglio dire che tu non sia riuscita a comprendere chi sono e come sono durante questa correlazione in continua evoluzione; sarei ingiusto.
Dico allora che non sono io riuscito a spiegarmi, ad aprirmi, a far trasparire il bisogno di affetto che ho, la necessità di recuperare, forse, del tempo perduto.
Dicevo che le tue parole mi hanno ferito, ma anche fatto riflettere. Così come mi ha sorpreso il tuo repentino cambiamento di umore, dettato non dalla autocoscienza di un gioco “eccessivoâ€, ma dalla eterocoscienza, che ti ha indotto sensi di colpa che non devi avere, perché per me sei e rimani candida, dentro. Non posso sopportare l’idea che altri da lontano influisca sul nostro rapporto amicale, predicando bene e razzolando male. E poi non tollero prediche da cotanto pulpito; tu sei libera di farlo, io non voglio subirne le conseguenze, sia pure mediate o indirette."
Ce l’avevo con Luca. All'epoca scrivevo benino, non soffrendo della 'sindrome di Immanuel', che per (s)fortuna non era ancora nato. Anticipavo nella lettera la prevedibile risposta di Cecilia: sosteneva che io pensassi troppo, che mi facessi delle pippe mentali.
"Saresti fuori strada e dimostreresti una volta per tutte di non comprendermi e nemmeno di tentare di capirmi o forse di non volermi “ascoltareâ€.
Perdonami, se puoi, sono piuttosto complicato, destinato ineluttabilmente a soffrire e, forse, a far soffrire; dal canto mio non riuscirò mai a perdonarmi …
Ti abbraccio forte forte forte."
Per mia fortuna all’epoca non c’erano i telefonini cellulari (né i PC). Comunque l’avrei staccato.
Tornato a casa rinvenni due messaggi di Cecilia sulla segreteria telefonica.
Il primo un “appello†sibillino: “Per favore, torna indietro, devo darti una cosa …â€.
Il secondo più drastico: “Hai rovinato tutto!â€
Fui tentato di richiamarla. Caddi in tentazione: la chiamai.
La sua voce era flebile, la mia incerta. Mi confermò che era tutto finito tra noi. Non poteva fidarsi di uno incostante e metereopatico come me. Lì per lì me ne rallegrai, forse. Avevo conseguito il mio scopo: rompere definitivamente quel precario equilibrio, spezzare la corda tesa.
Stavamo per salutarci come due perfetti estranei. La mia voce, tuttavia, era rotta dalla emozione. Cecilia percepì il mio stato d’animo. Non di meno mi congedò con un “Addioâ€. “Come vuoiâ€, le risposi. Stavo per riattaccare la cornetta sul telefono nero che faceva bella mostra di sé nel corridoio, appeso alla parete, quando udii dall’altro capo: “Senti, io c’ho fame … perché non andiamo a mangiare un boccone da qualche parte?†La immaginavo con i suoi occhi vispi e furbi accanto al telefono in onice, posto su di un piedistallo in legno ad un lato del soggiorno. Le dissi: “Va bene, tra mezz’ora a San Lorenzo, dal <<re della mezza>>â€.
Era una bettola ad uso degli studenti universitari, che noi vezzosamente chiamavamo “il re della mezzaâ€, mutuando il termine dal film “C’eravamo tanto amatiâ€.
Arrivai puntuale, ma Cecilia non c’era. Pensai al tipico contrappasso. Me lo sarei meritato. Stavo per tornare mestamente a casa, quando sentii la sua voce. Ci abbracciammo come due vecchi amici. Ci discostammo repentinamente. Le domandai di quella cosa che aveva detto di dovermi dare. Mi disse che era una sorpresa e mi invitò a chiudere gli occhi. Confesso che pensavo ad un bacio, un casto bacio sulle labbra. Avvicinai il volto verso di lei. Mi arrivò un sonoro ceffone sulla guancia, che mi ridestò dalla illusione. Era soddisfatta. Aveva lavato l’onta subita.
Mangiammo non ricordo cosa. Lei bevve solo un bicchiere di vino della casa, davvero pessimo, e sgranocchiò dei grissini. Non aveva più appetito. Le interessava solo confidarmi il suo vissuto e gli abbandoni in serie che aveva subìto. Stetti ad ascoltarla, assorto. Mentre parlava con gli occhi lucidi sembrava regredire in se stessa, non solo metaforicamente, ma anche fisicamente. Un uccellino spaurito, che cercava un approdo sicuro. Mi si strinse il cuore. Avrei voluto sparire per quello che le avevo combinato solo poche ore prima. Per fortuna avevo posto rimedio alla “rovina di tuttoâ€. O aveva lei deciso di porvi rimedio, forse …